Quando la filosofia nasce da una sconfitta
Questo è il mio articolo uscito nel numero di ENDOXA di novembre 2022.
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Ma come si fa a dire che su di ciò di cui non si può parlare si deve tacere? Come si può pensare che l’impensato non venga espresso, che il non detto rimanga tra-le-righe, che il non espresso possa restare nel silenzio di una vita così complicata?
La figura filosofica di Wittgenstein mi ha sempre affascinato poiché rappresenta il Mito di Sisifo per eccellenza, ancor più di Albert Camus. Infatti, se quest’ultimo è l’autore dell’omonimo testo, Ludwig Wittgenstein è l’incarnazione filosofica di quel mito e ciò risulta al tempo stesso tragico e romantico.
Ho sempre considerato la proposizione finale del Tractatus come la più alta aspirazione a cui una creatura pensante e linguistica possa ambire: tutto ciò che sta al di fuori del linguaggio, del simbolo, della parola e della rappresentazione dovrebbe essere lasciato in pace, in silenzio, nel dimenticatoio. Non tanto per tracotanza o superiorità, ma proprio per umiltà e consapevolezza del limite.
Il Tractatus è il libro scritto da un uomo ossessionato dal limite: il limite dell’agire umano, che per un individuo testimone delle trincee della Prima Guerra Mondiale è un’evidenza tragica; il limite del linguaggio, di cui la filosofia stessa è figlia (ricordiamo che Wittgenstein è colui che meglio di tutti ha affermato il ruolo della filosofia in quanto “fraintendimento” umano per eccellenza); il limite della vita, segnata ineluttabilmente dalla fatica, dall’incomprensione e, non ultimo, dalla morte. La tagliente natura di quell’opera immensa e rivoluzionaria sanciva un prima e un dopo: il prima, intriso di una filosofia tracotante che, desiderando ignorare tutti quei limiti esposti sopra, tenta di farci portavoce di un pensiero che abbraccia l’esistenza umana e quella universale in modo onnicomprensivo; il dopo, segnato da una filosofia che finalmente sa farsi da parte, sa rimanere al proprio ruolo, comprendendo l’invalicabilità dei propri limiti, che poi sono quelli del pensare stesso.
L’umiltà del non-poter-pensare, del non-saper-rappresentare e, di conseguenza, del non-voler-dire è una missione di grandissima ambizione che il Tractatus di Wittgenstein si è posto e nel quale, proprio come Sisifo, ha miseramente fallito.
La cosa ironica è che tale opera non ha fallito a causa dell’arroganza degli uomini, bensì per mezzo dello stesso autore. È proprio Wittgenstein che, anni dopo aver deciso di abbandonare la pratica stessa della filosofia, convinto di aver detto tutto quanto c’era da dire (ovvero poco, ma detto bene), ritorna sui suoi passi e decide di spingere nuovamente il masso verso la cima della montagna, ben sapendo di essere condannato alla sconfitta, inesorabilmente. Si sono spese così tante tonnellate di inchiostro sul “primo” e “secondo” Wittgenstein, sul filosofo del Tractatus e su quello delle Ricerche filosofiche, sul pensatore del linguaggio come limite e fraintendimento e su quello del linguaggio come gioco ed esperimento, che non mi sento adeguato a ripercorrere questo strambo labirinto dell’animo di un uomo.
Ma ciò che mi lascia basito è quanto la filosofia nasca spesso da una sconfitta.
Infatti, il Tractatus è un’opera che nasce da una sconfitta e dalla conseguente resa: l’essere umano giunge dalla tracotante e onnipotente infanzia, ma scopre che la realtà sta lì per contraddire il suo presupposto di poter dominare tutto e tutti. La finale vergata che Wittgenstein getta nella propria opera è il definitivo abbandono dell’infanzia e del sentimento divinatorio che essa inevitabilmente nutre: io sono il centro del mondo, l’apice dell’evoluzione e della creazione, padrone di me stesso al quale l’intero cosmo si sottomette; io non ho limiti, posso espandermi indefinitamente nello spazio e nel tempo, non conosco morte né sconfitta e perdurerò in continua espansione. La realtà però giunge e stronca la tracotanza naturale dell’infante che si trova a dover valutare due alternative: o soccombere per incapacità di adattamento alla nuova realtà, o rimodulare la propria relazione con il mondo e rivedere alla radice la concezione che ha di sé.
Lì giunge una prima maturazione dell’individuo che, passando da una fase infantile a una più adulta, si rende conto che non è il mondo ad essere a sua disposizione, ma è lui ad essere uno dei prodotti collaterali del mondo e, in questo senso, è costretto a riconoscere i propri limiti e le proprie deficienze. Il Tractatus, per me, ha sempre rappresentato questa prima resa incondizionata al limite, alla sconfitta, alla morte. A quel punto, la strada intrapresa da Wittgenstein è quella del silenzio, dell’accettazione pacifica, del ritiro incondizionato.
Ma quello che viene definito “secondo” Wittgenstein è altresì frutto di un’ennesima sconfitta che il maturo post-infante non pensava possibile. Cosa può venire sconfitto dopo che si è accettata la resa incondizionata al limite? Le Ricerche filosofiche e tutti i quaderni che il filosofo raccoglie nella sua seconda fase rappresentano una seconda fase di “maturazione” e la resa ad un’ennesima evidenza prima irriconoscibile: l’accettazione della stoltezza o, come ho scritto nel mio Elogio dell’idiozia, dell’ignoranza incolpevole in movimento.
Il cambiamento che Wittgenstein mostra nei confronti del linguaggio potrebbe sembrare un ritorno alla tracotanza infantile che precede la presa di coscienza del Tractatus, ma non è così. Uno sguardo superficiale potrebbe considerare la concezione del linguaggio come “gioco” un passo indietro rispetto alla lapidaria sentenza dell’opera precedente. Ma ciò di cui il filosofo si rende conto è che la resa non è ancora finita e che quell’ultimo aforisma, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, rischia di essere tanto arrogante quanto l’atteggiamento infantile che esso cerca di smontare.
Infatti, siamo limitati anche nella comprensione definitiva dei nostri limiti e considerare “definitivo” quel che posso o non posso dire diventa tanto riduttivo quanto supponente. Le Ricerche filosofiche rappresentano il momento in cui Sisifo, seduto ai piedi della montagna con il masso inerte accanto a sé, si rende conto che non c’è altro da fare che riportarlo verso la cima, pur consapevole della sconfitta che lo attende. In Wittgenstein, la sconfitta ci attende da entrambi i lati della ricerca di significato: è sconfitto l’infante che si illude di poter vincere sulla montagna e si rende conto che i suoi limiti avranno sempre la meglio, ed è sconfitto il filosofo che ai piedi della montagna comprende che non si può rimanere fermi, zitti e immobili di fronte all’ignoto dell’universo. È sconfitto quando si rende conto che l’essere umano deve tornare a parlare, a giocare, a sperimentare, a valicare limiti spaventosi. È costretto ad ammettere che le domande esistenziali, i dubbi oscuri, le parole dell’inesprimibile sono sentieri inevitabili perché, in fin dei conti, su ciò di cui non si può parlare si deve necessariamente giocare. È costretto a spingere nuovamente il masso verso la cima della montagna pur conoscendo l’esito finale perché i limiti toccati in precedenza non bastano per comprendere, conoscersi, esistere, e l’essere umano dovrà sempre per propria indole valicare quel che tutti hanno ritenuto invalicabile.
Wittgenstein è testimone e sopravvissuto delle due sconfitte più concenti e naturali che un individuo possa sperimentare: la prima, quella dell’infanzia tracotante; la seconda, quella della maturità moderata. E si spinge verso l’esistenza come gioco, il linguaggio come esperimento ed esplorazione, perché in fin dei conti bisogna ritornare davvero infanti, come dice Nietzsche nello Zarathustra, ma solo dopo aver vissuto la prima sconfitta.
Parafrasando Albert Camus: dobbiamo immaginare Wittgenstein felice. Felice, mentre trascina il masso verso la vetta, sapendo che cadrà, ma comunque desideroso di giocare con l’esistenza. Dobbiamo immaginarlo felice, proprio come Sisifo, altrimenti siamo perduti.
“Sisifo #vscocam” by Barbafred is licensed under CC BY-NC-SA 2.0.